ANGELICA INTINI
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VIVIANA BONURA

BENVENUTE in ABITARE IL CENTRO, una sezione di interviste in cui parlano in sorellanza persone che hanno fatto dell'arte fotografica - e non solo - il loro medium creativo.

Io sono Angelica Intini e oggi, con tutte noi, abiterà il centro Viviana Bonura, artista che ha dedicato la sua ricerca creativa all'esplorazione del concetto di identità e eistenza, utilizzando il proprio corpo e l'esperienza umana come strumenti fondamentali per esprimere le complessità dell'essere.

╱ ⭒ Dialoghiamo insieme ⭒ ╱

• In che misura la tua arte è diventata uno strumento per decostruire le narrative preesistenti della tua identità, favorendo al contempo un processo di ricostruzione che abbia consentito una “rinegoziazione” di te stessa, sia sul piano individuale che collettivo?

Fare arte è un modo per elaborare ciò che accade dentro di me e attorno a me. Attraverso il mio percorso con la fotografia mi sono confrontata innanzitutto con me stessa, non solo perchè spesso sono stata il mio stesso soggetto, ma perchè la fotografia ha il potere di plasmare l’immaginario, quindi di decostruire e di ricostruire le narrazioni. Se rifiutiamo di vedere noi stessi nelle nostre fotografie, e in generale in quella che consideriamo la nostra arte, stiamo piantando una bomba che causerà un danno - non importa se esplode o meno, stiamo comunque contribuendo ad una narrazione. Il percorso è lungo, nessuno impara nulla senza commettere errori e senza educarsi a guardare e a rimodulare la propria voce - anzi, spesso si tratta di ri-educarsi. Per me è stato sicuramente necessario intraprendere un percorso psico-terapeutico, ma anche sviluppare una coscienza politica. L’impatto all’inizio è stato forte, soprattutto perchè nelle fotografie emergeva una versione di me che temevo gli altri non riconoscessero o potessero interpretare male. Quando ho capito che io mi riconoscevo e che non ero disposta ad utilizzare delle scorciatoie visive - per esempio fare passi indietro rispetto al nudo - allora tutto è diventato più chiaro.


• Ho ascoltato il tuo podcast in cui leggi le quattro introduzioni ai tuoi capitoli di “Born from Salt”. Ritorna spesso, in svariati modi, la dicotomia vita-morte che permea profondamente la Fotografia. In che modo, secondo te, possiamo comprendere - tramite l’arte - la vita e la morte non come due opposti separati, ma come due fasi di un ciclo continuo, in cui la morte non rappresenta una fine assoluta, ma un passaggio naturale che permette alla vita di evolversi, trasformarsi e rinascere in forme nuove?

Born from salt parla di una rinascita concettuale che avviene attraverso un processo di riappropriazione del proprio corpo, del proprio sentire verso se stessi e verso la dimensione collettiva che ci circonda. In realtà non ho mai voluto trattare della morte in senso letterale, ma la dicotomia vita-morte funzionava poeticamente per diversi motivi. Ad esempio, quando stavo lavorando al progetto, ho sentito che per compiere questo processo avrei dovuto “fare morire” una parte di me che non mi apparteneva, ma al contempo credevo si trattasse di far resuscitare delle parti che pensavo fossero morte o mai nate. Ho poi realizzato che alcune chiavi di lettura possono essere valide in contesti diversi, come quando, riflettendo sul fatto che la mia nascita fosse avvenuta in un periodo di lutti familiari, ho avuto l’impressione che fosse stato necessario uno scambio: una morte in cambio di una vita. Razionalmente so che non è così, ma è stata la narrazione che ho interiorizzato. Elaborare le questioni che fanno parte del mio personale e creare delle narrazioni più sane, oltre ad essere necessario, è stato il mio modo di usare l’arte. E siccome l’arte è già il personale diventato collettivo allora è anche - con le parole di Carol Hanisch - un personale politico.

• Sei una giovanissima donna del sud, siciliana, immersa nelle maglie meridionali. Provengo anche io dal sud e conosco la terra da cui sono nata, ma non abbastanza (ammesso che si possa conoscerla davvero nella sua oggettività). Ho preso consapevolezza di questa mancanza quando sono andata via. Quanto credi di conoscere la terra che ti ha dato i natali? La fotografia ti ha aiutata in questo processo conoscitivo?

A proposito di sbagliare, un cortocircuito cognitivo che mentre razionalizzavo Born from salt continuavo a ripetermi era credere che decostruire me stessa significasse ripartire da zero, arrivare fino alle fondamenta per creare un individuo che, nella mia fantasia, non era contaminato dalle proprie origini. Assodato che la parola magica per spezzare questo cortocircuito era ri-appropriazione, ho scoperto che essere contaminati non è sempre qualcosa di brutto. Anzi, uno dei più grandi gesti di resistenza è proprio reclamare le proprie origini vivendo immersi in un immaginario che ci vuole appiattiti e in un panorama politico che reprime ciò che è difforme. Ad esempio, un conflitto emotivo penso comune a chi vive nelle isole è far convivere l’idea che non puoi togliere l’isola dall’isolano, ovvero la sensazione di essere in un mondo a parte, e contemporaneamente la consapevolezza che nessuno esiste da solo, quindi che non siamo isole. Ma questa esperienza è anche estremamente preziosa e può dare vita a prospettive uniche. Per fortuna la Sicilia è anche la terra del sale e dissotterrando le cose preservae dal passato l’ho ritrovata, quindi per questo devo ringraziare la fotografia.

• In che modo, secondo te, la pratica della cura nell’arte fotografica e nel processo di stampa, dalla selezione meticolosa del materiale all’intervento tecnico, contribuisce non solo alla valorizzazione estetica dell’immagine, ma anche alla sua capacità di trasmettere significati profondi e di preservare il patrimonio visivo?

Sono convinta che se adottiamo la cura in tutto quello che facciamo, compresa la fotografia e l’arte, qualcuno lo percepirà. Il presente si muove così velocemente da rendere impossibile stare al passo, nel senso che le notizie ci vengono tirate addosso con una frequenza tale da trasformarle in strategie per distrarci da ciò che è importante, o siamo circondati da cose che hanno un ciclo di vita sempre più breve e noi stessi siamo funzionali a questo sistema iper-produttivo. Ritagliarsi uno spazio di cura è fondamentale, è un atto politico. Può essere un privilegio, ma anche una pratica del cambiamento che si estende verso l’altro, quindi tutti quelli che possono dovrebbero almeno interrogarsi su quello che significa per loro prendersi cura.

• Le tue fotografie sembrano galleggiare in uno spazio senza tempo, pluridimensionale, immerse in un infinito anelito. Quanto riconosci te stessa in questa visione?

Mi riconosco abbastanza, specialmente se parliamo di Born from salt, in cui togliere i riferimenti spazio-temporali dalle immagini è stata una scelta dovuta proprio al mio sentire rispetto alla sensazione di essere contaminata e di voler ritornare ai minimi termini, per capire chi fossi veramente. Adesso penso che il mio rapporto con questa dimensione visiva trascendentale, se così vogliamo chiamarla, stia cambiando. Sento ancora la necessità di decontestualizzare gli elementi e sono sempre affascinata dalla dimensione magica che si crea sovrapponendo qualcosa di reale e qualcosa di estremamente intimo. Mi interessa tantissimo rimanere in questo luogo di mezzo, ma sento anche la necessità di essere più diretta.

• Mi piacerebbe che formulassi una domanda. Questa domanda verrà posta ad un’ altra persona che sarà intervistata, per creare un legame invisibile fra tutte le interviste, fra tutte le storie.

Vorrei sapere quando è stato il momento in cui quest’altra persona ha capito che quella che stava raccontando era la storia giusta per lei, in altre parole quando ha sentito che fosse una sua responsabilità, ma anche un gesto di cura diretto verso qualcosa o qualcuna, creare delle determinate immagini.


Viviana Bonura (Palermo, 1999) è un’artista visiva italiana. La sua ricerca si focalizza sui temi dell’identità e dell’esistenza attraverso l’utilizzo della presenza umana e del corpo, spesso il proprio. Esplora l’individuo sia in quanto entità singola sia come parte di una collettività, prendendo in considerazione gli spazi circostanti e la loro storia emotiva. Investiga il delineamento e la dissoluzione dei confini approfondendo concetti come gli spazi liminali, i traumi ereditari e la connessione tra sogni e realtà. Il suo lavoro è radicato nell’ambiguità della manifestazione simbolica di qualcosa che si cela nella nostra forma più umana. È laureata con lode in Graphic Design presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo e ha studiato Media alla National College of Art and Design di Dublino. Ha pubblicato “Born from salt” (2022) come libro interamente auto-prodotto ed il progetto è stato trasformato nella sua prima mostra personale presso 2LAB Gallery (Catania, Italy), prendendo successivamente parte a numerose mostre collettive nel mondo.
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Viviana Bonura (Palermo, 1999) è un’artista visiva italiana. La sua ricerca si focalizza sui temi dell’identità e dell’esistenza attraverso l’utilizzo della presenza umana e del corpo, spesso il proprio. Esplora l’individuo sia in quanto entità singola sia come parte di una collettività, prendendo in considerazione gli spazi circostanti e la loro storia emotiva. Investiga il delineamento e la dissoluzione dei confini approfondendo concetti come gli spazi liminali, i traumi ereditari e la connessione tra sogni e realtà. Il suo lavoro è radicato nell’ambiguità della manifestazione simbolica di qualcosa che si cela nella nostra forma più umana. È laureata con lode in Graphic Design presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo e ha studiato Media alla National College of Art and Design di Dublino. Ha pubblicato “Born from salt” (2022) come libro interamente auto-prodotto ed il progetto è stato trasformato nella sua prima mostra personale presso 2LAB Gallery (Catania, Italy), prendendo successivamente parte a numerose mostre collettive nel mondo.
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