LAURA PETRA SIMONE
BENVENUTE in ABITARE IL CENTRO, una sezione di interviste in cui parlano in sorellanza persone che hanno fatto dell'arte fotografica - e non solo - il loro medium creativo.
Io sono Angelica Intini e oggi, con tutte noi, abiterà il centro Laura Petra Simone.
Petra ed io ci siamo incontrate a Milano, trascorrendo insieme un intero pomeriggio tra conversazioni spontanee e visite a mostre d’arte. L’intervista si è svolta dal vivo, in un’atmosfera distesa, intrisa di complicità, leggerezza ma anche profondità. Di seguito, vi propongo un estratto trascritto dalla registrazione della nostra conversazione.
╱ ⭒ Dialoghiamo insieme ⭒ ╱
• Com'è stato il tuo primo approccio alla rappresentazione di te stessa attraverso l’obiettivo? È stato fin da subito un processo di scoperta personale oppure un’esplorazione delle possibilità creative offerte dal medium fotografico?
Ho iniziato a scattare con il cellulare, perché all’epoca non avevo ancora una macchina fotografica. Era il 2020. All’inizio non mi sono dedicata subito all’autoritratto: i miei primi scatti erano nature morte, che costruivo utilizzando oggetti trovati in casa, come stoffe di vestiti. Mi piaceva creare veri e propri piccoli set scenografici, ciascuno con un tema diverso. L’autoritratto è arrivato quando ho sentito il bisogno di inserire un corpo umano nelle mie composizioni. In piena pandemia, l’unico corpo a cui potevo accedere era il mio, quindi è stata prima di tutto una scelta pratica.
Non sono mai stata una persona che si faceva fotografare spesso, ma nel momento in cui ho iniziato ad autoritrarmi è nata in me la voglia di raccontarmi, di rappresentarmi anche con una certa ironia. Questo processo ha sicuramente contribuito a farmi conoscere meglio.
• Potresti approfondire il significato che assume per te l’utilizzo di oggetti, soprattutto di uso comune, nelle tue fotografie? In che modo questi oggetti, spesso considerati banali e trascurati, diventano elementi significativi e carichi di senso nelle tue opere? È un modo per esplorare la relazione tra ordinario e straordinario?
Per me gli oggetti hanno sempre avuto una sorta di vita propria. Durante il lockdown, questa percezione si è intensificata: in un momento in cui il mondo sembrava essersi fermato, gli oggetti che mi circondavano hanno iniziato ad assumere una presenza quasi vitale.
Nelle mie fotografie sono spesso i veri protagonisti delle “sceneggiature” che creo. In questa dinamica, il corpo umano diventa sfondo, cornice, contesto: è lo spazio entro cui l’oggetto può esprimersi. Gli oggetti comuni, quelli quotidiani e apparentemente banali, mi attraggono proprio per il loro potenziale narrativo. Quando li osservo, non mi soffermo sulla loro funzione pratica, ma su ciò che possono raccontare oltre quella funzione.
Limitare un oggetto a un solo ruolo è, in un certo senso, una forma di ingiustizia. La fantasia permette di liberarlo da ciò per cui è stato progettato, trasformandolo in qualcos’altro: un simbolo, un personaggio, un messaggio.
A dirla tutta, mentre ne parlo mi accorgo di quanto tenda a personificare gli oggetti. Forse è anche per questo che tendo ad accumularli: per me non sono solo “cose”, ma presenze da ascoltare, da far parlare attraverso l’immagine.
• Quindi si crea davvero un legame emotivo o sentimentale con gli oggetti?
Con alcuni più di altri. Da quando ho iniziato a usarli, mi sento legata a tutti, in misura diversa. Da un lato, mi è difficile separarmene: ciascuno ha avuto un ruolo, ha raccontato qualcosa. Allo stesso tempo, riconosco l'importanza di lasciar andare, anche perché non ho spazi molto grandi in casa e credo sia fondamentale fare spazio, anche simbolicamente. Mi piace pensare di donare agli oggetti una nuova vita, non più attraverso di me, ma altrove.
• Come selezioni questi oggetti e come li integri nelle tue composizioni fotografiche?
Li riscopro nei mercatini, nei negozi d’antiquariato o anche presso semplici rigattieri. A volte mi capita di trovarne alcuni persino in negozi comuni. È sempre l’oggetto a chiamarmi: è nel momento in cui entro in uno di questi luoghi che, guardandomi intorno, comincio a costruire nella mente una possibile storia da raccontare. Raramente ho già un’idea precisa prima di vederli. Vedo un oggetto, mi evoca un’immagine, e lo acquisto.
Gli oggetti non sono mai scelti a caso: svolgono un ruolo preciso nel dare significato alla fotografia. Detto questo, tutto ciò che mi circonda può ispirarmi — una frase letta per caso, lo sguardo di uno sconosciuto per strada. Tutto può diventare stimolo. Da lì, come in una sorta di comunione, cerco l’oggetto che meglio richiama quell’immagine interiore.
• Le tue fotografie presentano elementi androgini, che sembrano sfidare le convenzioni tradizionali di genere e identità. Potresti approfondire il significato di questi elementi nella tua opera?
La serie fotografica più rappresentativa in questo senso è Ermafroditi. In tutta sincerità, all’inizio doveva essere solo uno scatto isolato, ma da lì è nato un vero e proprio progetto. Un progetto che mi ha permesso di esplorare e vivere la sessualità in modo ironico, libero, giocoso.
Per me, gli ermafroditi sono esseri completi: portano in sé il maschile e il femminile, e proprio per questo mi affascinano. Mi piace l’idea di potermi sentire uomo e donna allo stesso tempo, mantenendo — e a volte deformando — le caratteristiche dell’uno e dell’altra nella loro forma più pura, anche se filtrata da una visione soggettiva e artistica. In fondo, credo che nessuno sia mai del tutto uomo o del tutto donna: le sfumature sono infinite, e ognuna ha il diritto di esistere.
Questo progetto non nasce come uno studio teorico sul genere. Piuttosto, vuole essere una riflessione sulla non-identificazione, sulla possibilità di sfuggire alle etichette e di abitare un territorio fluido, libero da definizioni rigide.
(N.d.C. Da qui, con Petra si è sviluppata una lunga e intensa riflessione sul concetto di binarismo di genere e sull’importanza di riconoscere le sovrastrutture sociali che influenzano il nostro modo di percepire e vivere l’identità.)
• Nelle tue fotografie è evidente una sfumatura erotica. Che relazione hai con l’erotismo?
In tutte le mie fotografie c’è sempre una componente erotica. È qualcosa che mi appartiene profondamente: sono sempre stata, in un certo senso, una persona morbosamente attratta da questo aspetto dell’esistenza. Non significa essere ipersessuale, anzi. Per me l’erotismo è una forza sottile ma pervasiva, presente in tutte le relazioni umane che ho vissuto.
L’erotismo è desiderio, tensione. E il desiderio, per noi esseri umani, è una potenza creatrice. Al contrario, penso che il sesso possa a volte diventare una forza distruttiva. L’erotismo, invece, è fatto di attese, di allusioni. È quasi sempre vestito, mai completamente nudo. Spesso è vestito di cattive intenzioni (sorride).
Per me, vivere nel desiderio significa non essere mai completamente soddisfatta. Significa avere sempre fame. E questa fame è ciò che alimenta la mia ricerca: una ricerca affamata, costante, irrinunciabile. Se non fossi affamata, forse smetterei di creare. Questo racconta molto di me, della mia vita personale — e inevitabilmente si riflette in ciò che faccio.
• Secondo te, quanto l’arte, la fotografia e la creatività hanno a che fare con dinamiche giocose? E come queste dinamiche entrano nel tuo processo creativo?
Per me, giocare significa vivere. Credo che un approccio giocoso alla vita permetta di viverla nel modo più autentico e, paradossalmente, nel modo più serio possibile. Il gioco è il modo più serio per affrontare l’esistenza. Quando smetterò di giocare, smetterò di sentirmi viva.
Ho sempre avuto un approccio edonistico, non solo nella mia pratica creativa o musicale, ma in tutto ciò che faccio. Spesso realizzo autoritratti con altre persone, con cui intrattengo relazioni affettive significative. In quei momenti, tra me e chi posa con me, si crea un gioco condiviso, simile a quello che accade a teatro tra attori. Durante i miei set si ride, si scherza, si improvvisa: si crea un vero e proprio spazio ludico. Questa dinamica non è casuale, anzi, è profondamente voluta. Di solito, quando invito qualcuno a posare, chiedo: “Ti va di giocare con me?”
Ciò che trovo affascinante è osservare come l’altro si senta parte attiva nella creazione dell’immagine. Aiutano ad allestire il set, si sentono protagonisti — ed è giusto così. È bello percepire come ci si immerga insieme in un piccolo mondo che, per un attimo, diventa gigantesco. Una dimensione onirica dentro la realtà, dove si ride molto e ci si trasforma.
Alla fine, ciò che mi interessa davvero è la relazione umana e il suo potere trasformativo. È un onore poter sentire come parte di me amici o persone che ho amato profondamente, e vedere questa connessione riflessa nelle immagini. Anche quando le fotografie sono costruite, diventano reali. Alcune persone forse non faranno più parte della mia vita, ma l’immagine resterà. E con essa, quel momento.
• Hai parlato di musica, e speravo uscisse fuori nella nostra chiacchierata. Che rapporto hai con la musica, considerando il tuo percorso di studi?
Sono una fotografa autodidatta, e ancora oggi non so davvero cosa significhi "fare fotografia". C’è chi lo sa — io no (ride). Ho invece studiato violino in conservatorio, e quella formazione ha influenzato profondamente il mio modo di creare immagini.
Molto spesso le mie fotografie nascono da suoni, melodie, atmosfere musicali. In alcuni casi è proprio un brano a evocare in me l’urgenza di scattare. La musica ha un ruolo fortissimo nel mio processo creativo, forse ancor più della componente visiva.
La musica è matematica, struttura, razionalità, ma è anche emozione pura. Questo mi ha insegnato che anche nella logica può esserci emotività. Personalmente, ho sempre trovato più affascinante una nota rispetto a un numero.
• Cosa pensi dell’impiego dell’intelligenza artificiale nella realizzazione di immagini? (Valeria VAVOOM)
È una bella domanda. Non ho ancora esplorato a fondo il mondo dell’intelligenza artificiale, anche se mi è capitato di chiacchierare con ChatGPT. Ammetto di essere ancora ignorante in materia, ma qualche riflessione ce l’ho.
Non demonizzo l’IA. Credo che, se utilizzata con consapevolezza e onestà, possa diventare uno strumento utile, ad esempio per migliorare la resa tecnica di un’immagine in funzione di una stampa specifica. Ma sottolineo: deve essere usata in modo trasparente e coerente con il proprio approccio creativo.
Per me, la fotografia resta un gesto manuale, artigianale. La macchina fotografica è solo un mezzo: ciò che conta è l’intenzione, il tocco umano, la relazione.
• Mi piacerebbe che formulassi una domanda. Questa domanda verrà posta alla persona che sarà intervistata dopo di te, per creare un legame invisibile tra tutte le interviste e le storie.
In un mondo dove tutto è stato artisticamente fatto, cosa pensi possa dare un reale contributo emotivo e viscerale a ciò che crei ? Cosa pensi renda l’arte speciale oggi ?