CHIARA G. LEONE
Io e Chiara ci siamo incontrate a Milano. È stato davvero bello conoscerla di persona: seguiamo i rispettivi lavori fotografici da tanto tempo, e dare finalmente un volto umano a ciò che fino a quel momento era solo virtuale — andando oltre lo scherzo e la distanza — è stato necessario, quasi vitale.
Fin da subito abbiamo avuto la sensazione di conoscerci da anni e questa percezione continua a permeare il nostro rapporto. Abbiamo trascorso diverse ore insieme, parlando di fotografia e di poesia. Mi ha anche accompagnata a comprare un libro di Patrizia Cavalli, Il mio felice niente. Ve lo consiglio, così come lei lo ha consigliato a me.
Di seguito, una parte trascritta dell’intervista avvenuta di persona.
╱ ⭒ Dialoghiamo insieme ⭒ ╱
• Parlando, è emerso questo approccio dualistico — l’essere dentro e fuori di sé — nella fotografia, e mi piacerebbe partire proprio da qui. Nell’allontanamento da te stessa che metti in atto quando crei, c’è il desiderio di sublimare una sofferenza o di generare una forma di catarsi?
Le mie donne sono sempre un po’ sospese tra due mondi: da una parte l’istanza di farsi vedere, di affermare con forza “Guardate! Io ci sono, esisto, e sto nel mondo”; dall’altra una certa ritrosia, una tendenza a restare defilate, per osservare meglio cosa accade intorno, per comprendere l’ambiente che abitano.
Non so se l’allontanamento abbia davvero a che fare con la catarsi. Io credo che la catarsi risieda nel gesto, più che nel prodotto finito. È proprio nel gesto che si compie qualcosa. C’è una frase bellissima nel film Holy Motors di Leos Carax che dice più o meno: “Io continuo, così come ho cominciato, per la bellezza del gesto.”
Credo che in questo stia la sublimazione del dolore, della sofferenza. Ogni essere umano ha un proprio corpo di dolore che si porta dentro, e ciascuno trova il modo per conviverci.
Pierluigi Cappello, un poeta che amo profondamente, in uno dei suoi rari testi in prosa scrive che “le ferite si possono tenere a pochi centimetri dal cuore, inoffensive”. Però ci sono. Tu le guardi, le riconosci, ma impari a conviverci.
• Sei una donna che fotografa donne. Lavorare su un immaginario femminile è una responsabilità. Quanto hai dovuto decostruirti e decostruire per portare in scena qualcosa che, così facendo, per te diventa autentico?
Io mi sono dovuta decostruire, e penso che ogni donna che nutra anche solo un minimo di curiosità verso la vita, a un certo punto viva necessariamente quel momento in cui si chiede che tipo di donna voglia essere.
Vengo dal Sud Italia, da un paese di appena 1200 anime. Il mio femminile più prossimo – mia madre – ha avuto un’influenza fortissima sulla visione che ho costruito di me stessa. Per molto tempo ho cercato di somigliarle, paragonandomi costantemente a lei. Nel finale di un libro bellissimo di Donatella Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume, la scrittrice scrive: "ho chiamato ogni mio limite mia madre", in virtù del fatto che è la donna che stimo di più al mondo. Poi ho capito di essere e di avere un femminile diverso. E sono diventata.
Nel momento in cui mi sono affrancata da quel femminile materno – che, ci tengo a dirlo, mi ha sempre lasciata libera di essere esattamente ciò che ero e che sono diventata – ho cominciato a chiedermi chi fossi davvero. E la fotografia, in questo processo, è stata uno strumento importantissimo.
Fotografare tante donne, parlare con loro, incontrarle, decidere insieme alcuni aspetti del lavoro che avremmo fatto, ha arricchito il mio femminino e il mio femminile. Il mio lavoro fotografico mi ha anche aiutata a creare una rete attorno a me, fatta di donne. Perché forse, ciò che spesso ci manca, è proprio quella sorellanza che ci permetterebbe di sostenerci nei momenti di difficoltà.
Le parole hanno il potere di trasformare il mondo. Sento profondamente la responsabilità delle parole che pronuncio: mi aiutano a vedere il potenziale delle cose, non il loro “deficit”. Allo stesso modo, le parole che noi donne usiamo le une verso le altre sono fondamentali.
In questo senso, secondo me, la lotta al patriarcato deve fondarsi sull’accettazione della differenza tra uomo e donna – che, attenzione, non è una differenza di diritti!
Lo diceva anche Simone de Beauvoir – che è la madre del femminismo –: quando uomini e donne riusciranno ad accettarsi, quando non ci saranno più giochi di potere, probabilmente riusciremo a costruire una coesistenza davvero sana.
(N.d.C. Io e Chiara, in questo punto, abbiamo approfondito il concetto di sorellanza, cosa significa per noi e abbiamo analizzato – nel nostro piccolo – i motivi storici e culturali che hanno portato le donne a non costruire una rete forte tra loro.)
• La fotografia è un linguaggio ed è un linguaggio visivo. Poi ci sono le parole, che appartengono a un altro tipo di codice linguistico. Secondo te, quanto possono intrecciarsi questi codici? In cosa sono vicini e in cosa molto lontani?
Sono una persona che legge moltissima poesia; la mia biblioteca è composta in gran parte da raccolte poetiche. Non solo: cerco soprattutto poeti contemporanei, mi piace scoprirli, selezionare nuove voci, senza ovviamente dimenticare i classici.
Mi sono spesso chiesta come poesia e fotografia possano coesistere come linguaggi. E mi sono data una risposta, molto semplice: la poesia – o almeno la parola poetica – è fatta di immagini. Si usano metafore per raccontare qualcosa, si fa riferimento a un lessico naturalistico: cielo, mare, alberi, vento.
Recentemente ho letto L'alea di Laura Pugno, un libro che lavora proprio con gli elementi del paesaggio – elementi che ritornano anche nella mia fotografia – e, attraverso di essi, la poeta parla del corpo, della sua intimità. Anche la mia ricerca, in fondo, si concentra su esso, perché noi siamo essenzialmente corpo.
Non ho mai creduto nella divisione tra anima e corpo: è una visione che appartiene alla cultura cattolica. Ma è con il corpo che si sente tutto – quando sei innamorata, quando provi dolore, quando avverti il panico.
In questo senso, per me, la parola è l’anticamera dell’immagine.
• Quando parli, si percepisce profondamente la tua passione per la parola. Hai mai scritto poesie?
Sì. Quando ero adolescente scrivevo molte poesie – gli orrori della gioventù (sorride). Ho anche pubblicato una piccola raccolta poetica.
Ad un certo punto, però, ho capito che la poesia è un’arte talmente nobile da poter essere praticata solo da chi la sa davvero maneggiare. Scriverle è una responsabilità, al pari del fare fotografia.
Non ho mai smesso di leggere poesia e rappresenta un bagaglio fondamentale anche nella costruzione delle mie immagini fotografiche.
• A proposito di costruzione dell’immagine fotografica: c’è prima una costruzione mentale, un progetto, e poi la messa in pratica? Oppure è nell’interazione con le persone che fotografi – dopo averci parlato, dopo averle conosciute – che decidi cosa tirar fuori, lavorando quindi in modo più istintivo?
Io scelgo solo una cosa: il colore. Sono ossessionata dal rosso, dall’azzurro, dal verde… e dalle schiene.
Molti scatti, però, nascono proprio dall’interazione che ho con la persona. Non solo: a volte mi presento sul posto, con la mia macchina fotografica, senza sapere nulla della location in cui scatterò. So che farò delle foto con una persona, ma non conosco l’ambiente che troverò, come la sua casa, il suo giardino, un prato.
Spesso, lo scatto nasce proprio da queste variabili impreviste. È in quel momento, nel dialogo tra ciò che vedo e ciò che sento, che prende forma l’immagine.
• In un mondo dove tutto è stato artisticamente fatto, cosa pensi possa dare un reale contributo emotivo e viscerale a ciò che crei ? Cosa pensi renda l’arte speciale oggi ? (L. Petra Simone)
Io sono sempre divisa in questa visione dicotomica della mia fotografia. A volte penso che, quanto più si è vicini a sé stessi, tanto più si riesca a creare. Altre volte, invece, credo che per creare sia necessario allontanarsi un po', guardarsi dall’esterno, compiere quasi un’opera alchemica: osservare sé stessi da un’altra prospettiva. Forse è proprio in questa dimensione che si può aggiungere qualcosa in più a ciò che si ha da raccontare.
Noi ci siamo sempre, e non possiamo prescindere dal mondo che ci circonda. Probabilmente, il fatto di guardarsi intorno e comprendere ciò che accade offre un enorme contributo.
Io penso che tutto ciò che facciamo sia politica. E che ogni persona, nel proprio piccolo — nel mio caso piccolissimo — abbia la responsabilità di essere portatrice o portatore di messaggi importanti, soprattutto in un momento storico come questo.
• Una domanda da lasciare alla persona che sarà intervistata dopo di te ?
Come fotograferesti il silenzio ?